PAPPAGALLI ELOQUENTI: BREVE VIAGGIO NEL CERVELLO AVIARIO
Nel linguaggio di uso comune l’espressione “avere un cervello di gallina” si riferisce a una persona non particolarmente dotata sotto il profilo cognitivo, non in grado, ad esempio, di imparare dalla propria esperienza, e quindi soggetta a ripetere continuamente gli stessi errori. In effetti, se ci riferiamo proprio alla gallina, le cose – dal punto di vista scientifico – stanno proprio così; vale a dire che, nei test scientifici che sono stati effettuati per valutare le capacità di apprendimento delle galline, questi uccelli non hanno conseguito mai risultati brillanti.
Lo stesso non si può dire però dell’intera Classe degli Uccelli, vertebrati omeotermi caratterizzati da un notevole sviluppo encefalico, contrariamente a quello che ritiene la maggior parte delle persone. E se il quoziente intellettivo di un animale non dipende solamente dal suo volume encefalico, è altrettanto vero che proprio l’encefalo, negli uccelli, può presentare una notevole complessità, con strutture che sono omologhe rispetto alla corteccia cerebrale dei mammiferi, alla quale si devono le prestazioni superiori della Classe di vertebrati cui noi stessi apparteniamo. Bisogna inoltre tener presente che i cervelli della maggior parte degli uccelli occupano dal 2 al 9% del totale della loro massa corporea, esattamente come accade ai mammiferi. Anche se non sono chiare le relazioni tra la capacità di apprendimento e il quoziente di encefalizzazione tra gli uccelli si annoverano specie capaci di trovare brillanti soluzioni a problemi complessi. Il comportamento degli uccelli è certamente in buona parte stereotipato, cioè basato su schemi geneticamente determinati, ma esso presenta – soprattutto in determinati gruppi – una notevole versatilità e predisposizione ad arricchirsi di nuovi moduli, in ragione della capacità che hanno molti uccelli di imparare dall’esperienza, propria e dei conspecifici. Seguendo uno storico paradigma scientifico, solo di recente messo in discussione grazie a nuovi studi, il cervello degli uccelli rappresenta una tappa del percorso evolutivo encefalico che parte dai vertebrati primitivi, che occupano il gradino più basso, fino ad arrivare al cervello dei mammiferi, con corteccia cerebrale profondamente fessurata, dove vengono elaborate le più avanzate abilità cognitive. In realtà, come si diceva, anche negli uccelli è stato rintracciato l’omologo della corteccia cerebrale, al quale è stato dato il nome di iperpallio, dove hanno sede i centri dell’apprendimento e dell’intelligenza.
Definire il concetto di intelligenza
A proposito di intelligenza, c’è da dire che, a livello umano, gli psicologi l’hanno definita come “un’attitudine unitaria e globale di un dato individuo a pensare razionalmente e ad affrontare efficacemente il proprio ambiente”. Di per sé, questa definizione sembrerebbe alquanto astratta e sibillina, se non proprio interlocutoria. Non si chiarisce quali siano i requisiti dell’intelligenza. In passato si credeva che l’intelligenza si potesse misurare, attraverso dei test che si traducono in un punteggio. Secondo questa idea dell’intelligenza, essa è, appunto, una facoltà globale e unitaria, che può esistere in gradi diversi nei differenti soggetti. Da un punto di vista naturalistico, sarebbe meglio considerare invece l’intelligenza in modo “pluralistico”, sottolineando come compiti diversi richiedano intelligenze diverse e come queste possano emergere o essere inibite a seconda degli ambienti. Ad esempio, in un ambiente naturale emergono o sono apprezzate delle forme di intelligenza senso-motoria che invece hanno scarse applicazioni o vengono svalutate in una società post-industriale. Passando dal livello umano a quello animale, è innegabile che ogni considerazione sull’intelligenza deve andare di pari passo con una disamina dell’evoluzione del comportamento in termini di evoluzione del sistema nervoso. La parola chiave da utilizzare per discutere dell’intelligenza animale è “plasticità”. Il comportamento delle specie può essere “plastico” o “rigido”, in funzione della plasticità o rigidità delle relative strutture del sistema nervoso dalle quali esso dipende. Una specie dal comportamento plastico sarà una specie che potrà assumere comportamenti nuovi, a seconda dell’esperienza acquisita e del grado di maturazione delle proprie strutture cerebrali dinamiche. Un esempio in tal senso è fornito dai Canarini, che, in primavera, possono imparare ad emettere canti leggermente diversi da quelli tipici della propria specie, riuscendo a imitare alcuni suoni ascoltati nell’ambiente, e ciò avviene in quanto il loro cervello, in questa fase, si arricchisce di nuove connessioni sinaptiche. Gli uccelli canori adulti possono formare nuovi neuroni, rimpiazzare quelli vecchi, e riallocare lo spazio del cervello in maniera appropriata agli sforzi stagionali. Questo processo, chiamato neurogenesi, è ora un fatto accertato (Nottebohm, 2002). All’inverso, una specie dal comportamento “rigido” può essere senz’altro l’Anfiosso, cordato primitivo, dotato di un sistema nervoso “spinomidollare” che corrisponde a una rigida programmazione e che si traduce prevalentemente in azioni di tipo riflesso. Man mano che la ricerca sulle basi neurobiologiche delle attività cognitive prosegue, appare sempre più chiaro che, al di là delle differenze filogenetiche tra le specie, la concezione rigidamente deterministica delle funzioni cerebrali e corticali è da ridimensionare, a favore di una visione più plastica del cervello, e di attività cognitive quali la memoria e l’apprendimento.
Le varie forme di apprendimento
Cerchiamo ora di chiarire cosa si intende per apprendimento e di spiegare quali sono i tipi di apprendimento che gli etologi hanno individuato con i loro studi. L’apprendimento viene definito come una modificazione adattativa e relativamente permanente del comportamento. Tradizionalmente l’apprendimento viene suddiviso nelle seguenti categorie:
1) apprendimento non-associativo;
2) apprendimento associativo;
3) apprendimento complesso.
Esempi di apprendimento non-associativo sono l’abituazione (o assuefazione) e la sensibilizzazione (o sensitizzazione), ampiamente studiati nella lepre di mare, Aplysia californica, mollusco gasteropode marino. Uno dei riflessi più comuni in questo mollusco è la ritrazione della branchia, in caso di stimolazione tattile del sifone. La ripetuta presentazione dello stimolo, cioè la stimolazione tattile del sifone, determina una progressiva diminuzione e alla fine il venir meno della risposta. Qui ci troviamo di fronte ad un vero e proprio apprendimento, e non a una riduzione di sensibilità a seguito di adattamento sensoriale o di affaticamento nervoso. Infatti, la stimolazione del sifone in un altro punto, determina di nuovo il riflesso di ritrazione della branchia. E’ ovvio il valore adattativo di questa forma di apprendimento: viene evitato un inutile dispendio di energie nervose, di fronte a stimoli che si sono rivelati come innocui, ancorché ripetuti nel tempo.
Opposto è il caso della sensibilizzazione; questa viene definita come l’aumento nella probabilità di ottenere una risposta normalmente provocata da uno stimolo biologicamente significativo a seguito della ripetuta esposizione a questo, o, più frequentemente, a qualche altro stimolo. Ancora una volta è l’Aplysia che ci viene in soccorso con l’esempio esplicativo; nel caso della sensibilizzazione, la ritrazione riflessa della branchia è più intensa della norma, e si ottiene se la stimolazione tattile sul sifone avviene dopo l’applicazione alla testa dell’animale di uno stimolo intenso (ad esempio elettrico) atto a generare “allarme” nell’animale. Sia l’abituazione che la sensibilizzazione possono persistere nell’Aplysia non solo per ore, ma anche per giorni o settimane, e questa “relativa permanenza” del comportamento ci consente a buon diritto di ascriverlo tra i comportamenti appresi. Il valore adattativo della sensibilizzazione sta nel fatto che l’animale, in questo caso, è in grado di reagire tempestivamente a stimoli più forti del normale, conservando la capacità di farlo per un certo tempo, avendo cioè memoria dello stimolo forte che ha provocato la reazione, riconosciuto come stimolo “allarmante”, nel senso di inconsueto, e, pertanto, foriero di pericolo.
Il secondo tipo di apprendimento, è quello associativo. Qui abbiamo a che fare con un comportamento arcinoto anche al grosso pubblico, e mi riferisco al riflesso condizionato del cane che comincia a salivare al suono del campanello. La scoperta di questo comportamento si deve al russo Pavlov (1927). Il gioco è semplice: se si fa precedere alla presentazione del cibo, rispettando sempre lo stesso intervallo di tempo, il suono di un campanello, dopo un certo numero di prove la reazione di salivazione del cane si ottiene al semplice suono del campanello; cioè il cane, che all’inizio salivava solo quando gli veniva presentato il cibo, impara ad associare il suono del campanello (stimolo condizionante) all’offerta del cibo, per cui produce saliva anche se al suono del campanello non segue la presentazione del cibo. Un’altra forma di apprendimento associativo è il cosiddetto condizionamento strumentale, in cui il primo stimolo non è più uno stimolo ma una risposta emessa dall’animale, come ad esempio premere una leva, beccare un pulsante, girare a destra in un labirinto, ecc.. Quello che succede è questo: un animale, come un gatto, o un topo, viene messo in una gabbia, dove, all’inizio senza rendersene conto, si accorge che premendo una leva ottiene il rilascio del cibo. L’animale viene quindi indotto a ripetere, questa volta consapevolmente, l’operazione: puntualmente, premendo la stessa leva, ottiene il cibo. L’ottenimento del cibo funge da rinforzo per l’emissione del comportamento. L’animale ha imparato ad associare i due eventi, e apprende che tutte le volte che preme la leva, ottiene il cibo. Lo scienziato che ha studiato questi tipi di apprendimento si chiama Skinner, e le gabbie sono per l’appunto dette gabbie di Skinner (1931).
Secondo alcuni scienziati, entusiasti sostenitori degli esperimenti di Skinner, in teoria sarebbe possibile indurre qualsiasi animale ad effettuare determinati comportamenti, seguendo lo schema del condizionamento strumentale. Questi scienziati sono i cosiddetti behaviouristi, cioè i comportamentisti, i quali credono che un animale, alla nascita, sia come una tabula rasa, sulla quale sarà possibile scrivere di tutto, semplicemente adottando varie tecniche di condizionamento strumentale, per indurre quell’animale a comportarsi in un certo modo. A questa visione “plasmatrice” totalizzante del comportamento animale, hanno risposto gli etologi, con i loro studi sul campo, arrivando a sostenere che il comportamento di una specie è sì condizionabile, ma si basa anche e principalmente su quello che è il patrimonio genetico, frutto di milioni di anni di filogenesi, e che, pertanto, esso va rapportato all’ambiente particolare in cui l’animale vive, cioè al suo habitat. In altre parole esiste un limite alla possibilità di far fare ad un animale ciò che si vuole, e questo limite è dato – potremmo dire – dalla natura stessa, cioè dall’equipaggiamento di cui un animale è fornito, in virtù della filogenesi del gruppo al quale esso appartiene.
Le basi cellulari e molecolari della memoria
Una delle maggiori scoperte che sono state fatte negli ultimi anni, in tema di conservazione di tracce mnestiche, riguarda le modificazioni cellulari e molecolari che investono le sinapsi neuronali coinvolte nelle vie di trasmissione degli impulsi, durante l’abituazione la sensibilizzazione. Nell’Aplysia, se l’abituazione e la sensibilizzazione vengono consolidate da periodi di stimolazione ripetuti sistematicamente, la loro conservazione può continuare persino per qualche mese, tanto da poter rendere conto di una vera e propria “memoria” a lungo termine.
E’ stato dimostrato che la conservazione dell’ “engramma” è riconducibile a modificazioni di proprietà sinaptiche, che però risultano ben più profonde della sola modificazione di canali ionici membranali poiché sono addirittura evidenziabili dall’esame ultrastrutturale. Infatti, come è schematizzato nella Figura 1, le “zone attive”, cioè le regioni membranali ove avviene l’effettiva liberazione del neurotrasmettitore, sono molto diminuite di numero dopo che si sia stabilita l’abituazione a lungo termine, mentre sono più numerose dopo che sia avvenuta la sensibilizzazione a lungo termine. Inoltre l’estensione del contatto sinaptico diminuisce nell’abituazione ed aumenta nella sensibilizzazione a lungo termine, per variazione del numero di introflessioni tra membrane pre- e postsinaptiche. In pratica questi risultati ci mostrano che, alla base della memoria a lungo termine, sia rispetto alla mancata riposta alla stimolo (abituazione), che alla risposta accentuata (sensibilizzazione), vi sono cambiamenti ultrastrutturali evidenti. Pur non essendo io un riduzionista, questo fatto acclarato della fisiologia mi ha lasciato senza parole, sin da quando lo studiai la prima volta da semplice studente universitario.
Fig. 1. Schema delle modificazioni che si osservano, a livello di una sinapsi tra i neuroni sensitivi ed i motoneuroni di Aplysia, dopo che, nel riflesso di retrazione del sifone, si è stabilita l’abituazione (A) o quando viene evocata la sensitizzazione (B). Le “zone attive” delle membrane pre- e postsinaptiche sono indicate da brevi segmenti ispessiti (ridisegnato da Taglietti e Casella, 1997)
L’imprinting e i pulcini di Lorenz
Un’altra forma di apprendimento un po’ atipica, in quanto difficilmente riconoscibile come tale, è l’imprinting, reso famoso dagli studi dell’etologo Konrad Lorenz. Il primo ad accorgersi del fenomeno dell’imprinting fu Spalding (1873), riportando numerose osservazioni sul comportamento dei pulcini domestici (Gallus gallus domesticus) durante i primi giorni di vita, e notando che essi seguivano ogni oggetto in movimento, sviluppando in breve tempo un forte attaccamento ad esso. Lo stesso fenomeno fu riscontrato da Heinroth (1911) nei pulcini di Oca (Genere Anser) allevati in incubatrice, e quindi manipolati dall’uomo fin dopo la schiusa. Essi seguivano pigolando gli esseri umani come se si fosse trattato dei loro genitori. Lorenz (1935), estendendo le osservazioni di Heinroth anche a molte altre specie di uccelli ipotizzò che l’imprinting, a differenza degli altri tipi di apprendimento, avvenisse in particolari stadi dello sviluppo e fosse irreversibile. In effetti Lorenz dimostrò che questa reazione del seguire un oggetto in movimento, considerato come genitore, si fissasse nel cervello dei pulcini in una fase precoce della loro vita, intorno alle 15 ore dalla schiusa. Il valore adattativo di questo comportamento appreso sta nel fatto che il pulcino, in tal modo, è in grado di distinguere la propria madre in mezzo a tante altre – una volta che ne abbia fissato l’immagine nel cervello – riuscendo così ad evitare di andare verso altri uccelli simili che potrebbero essergli ostili, cosa non improbabile, visto che nessun animale selvatico ha interesse ad allevare una prole non propria. Un aspetto non banale dell’imprinting è che, una volta che il piccolo uccello abbia deciso di seguire un certo animale, scegliendolo come genitore, esso, da grande, sarà attratto sessualmente da animali simili a lui, preferendoli ad animali della propria specie. In questa irreversibilità del comportamento, ancora una volta, sta il suo carattere di comportamento appreso. L’imprinting viene sfruttato abilmente dagli allevatori di uccelli, che in tal modo riescono a “forgiare” un animale particolarmente amichevole con gli umani.
Pappagalli, che passione!
L’imprinting ha fatto e fa la fortuna degli allevatori di Pappagalli (dal bizantino papagâs, a sua volta derivato dall’arabo babagà), uccelli frugivosi appartenenti all’Ordine degli Psittaciformi (dal greco psittacós), secondo la moderna classificazione zoologica. Togliendo dal nido un pullus di Pappagallo, dopo le prime due settimane di vita, per far sì che i genitori possano, nei primi giorni dalla schiusa, fornire al piccolo, attraverso lo speciale “latte di pappagallo” (un liquido ricco di proteine), tutti gli anticorpi ad esso necessari per costituire una efficace difesa immunitaria, il piccolo viene successivamente “allevato allo stecco”, con pappine speciali, fino al momento dello “svezzamento”, che corrisponderebbe al momento dell’involo, in natura. Durante tutto il processo, il piccolo Pappagallo subisce l’imprinting sull’uomo, nella figura del suo allevatore, e, per tutta la vita, se si continua a mantenere una regolare interazione con lui, il Pappagallo si comporterà con l’uomo come se si trattasse di un suo simile, cercandone spesso attivamente la compagnia, e accettando di buon grado da lui quasi ogni sorta di manipolazione. I Pappagalli sono uccelli molto sociali, e la socialità, nel Regno Animale, è spesso associata a notevoli capacità di apprendimento. Per tale ragione un Pappagallo “allevato a mano”, cioè allo stecco, artificialmente, è un soggetto particolarmente adatto a studi sull’apprendimento animale, perché si presta ad interagire con l’uomo, dal quale non sarà dipendente, da adulto, ma al quale resterà sempre connesso, come a un suo simile. Rispetto alla condizione dell’animale della gabbia di Skinner, “costretto” ad eseguire determinati esercizi, il pappagallo imprintato non si sentirà minimamente forzato ad interagire con il suo compagno umano, ma, anzi, ne seguirà spesso le intenzioni, quasi spontaneamente rispondendo a determinati stimoli visivi e acustici. Non sarà granché necessario fornire “premi”, sotto forma di cibo, al Pappagallo imprintato, dopo ogni esercizio ben eseguito, a guisa di rinforzo, in quanto il Pappagallo segue quello che comunque è il proprio comportamento naturale. Tutto ciò che conta, per fare in modo di avere un Pappagallo capace di eseguire correttamente dei semplici compiti, è mantenere con lui un rapporto continuo e diretto; deve cioè venirsi a creare lo stesso affiatamento che in natura ci sarebbe tra lui e un ipotetico partner.
Per quanto riguarda, invece, le proverbiali doti di imitatori vocali, o di parlatori, dei Pappagalli, è indubbio che buona parte delle convinzioni possedute dalla gente è frutto di testimonianze leggendarie. Il repertorio vocale dei Pappagalli è sicuramente vasto, e tutte le specie presentano vocalizzi molto variabili, necessari alla comunicazione intra ed interspecifica in ambiente forestale più o meno chiuso; bisogna però ammettere che, a parte poche specie, la capacità che hanno questi uccelli di riprodurre esattamente i suoni di alcune parole è limitata, e gran parte del lavoro di interpretazione di certi versi è fatta dalla fantasia umana. Appartiene all’emblematica rinascimentale l’attribuzione al Pappagallo di certi simboli, come quello dell’eloquenza; secondo Cesare Ripa, studioso accademico rinascimentale, il Pappagallo è simbolo dell’uomo eloquente “perché si rende meraviglioso con la lingua e con le parole imitando l’uomo, nella cui lingua consiste l’esercizio dell’Eloquenza”.
In tema di Pappagalli, posso parlare per esperienza personale, in quanto possessore di un esemplare di Pappagallo corona bianca (Pionus senilis), specie a corologia centro- sudamericana. Il mio Pappagallo (Fig. 2), nato nel 2013 in un allevamento autorizzato, ha già stabilito con me e mia moglie un rapporto molto stretto, che si rinnova quotidianamente, alimentandosi di reciproci scambi.
Fig. 2. Ecco “Windy”, il mio pappagallo “allevato a mano”, appartenente alla specie Pionus senilis. L’esemplare, che abbiamo battezzato Windy (in alternativa “Cau-cau”, che riprende onomatopeicamente uno dei suoi versi più caratteristici), poiché quando vola per casa provoca un notevole spostamento d’aria, ha imparato in breve tempo a venire sul braccio teso alla semplice vista dell’arto posto dinanzi a sé, e tale comportamento è elicitato dallo schiocco delle dita, o dalla ripetizione del suo nome (Fig. 3).
Fig. 3. Il pappagallo “Windy”, nell’atto di atterrare sul braccio teso di mia moglie, in risposta ad uno stimolo visivo, ma soprattutto acustico.
In particolare, è lo stimolo acustico, rappresentato dallo schiocco delle dita o dalla ripetizione del suo nome, più che quello visivo, a fungere da stimolo “potenziante”, in grado di scatenare una risposta più rapida. Un altro indizio comportamentale dell’imprinting avuto da Windy, e che lo rende particolarmente adorabile ai nostri occhi, è l’abitudine a lasciarsi delicatamente grattare sul capo, sulle guance, o sotto la gola, rimanendo immobile e silenzioso, con il piumaggio arruffato; retaggio del comportamento di mutual preening, ossia reciproca pulizia del piumaggio, adottata, all’interno della coppia, dai partners, che si punzecchiano delicatamente il piumaggio sulla testa, e, così facendo, rinsaldano il legame di coppia.
Tuttavia, siccome la natura selvatica dell’animale, benché allevato a mano, è sempre in agguato, c’è anche da dire che quello stesso arruffamento del piumaggio viene esibito da Windy con l’aggiunta dell’emissione di versi minacciosi e testa protesa in avanti con l’intenzione di aggredire, ogni qual volta davanti ai suoi occhi compaia un oggetto non gradito, visto come intruso nel proprio territorio, come un manico di scopa, oppure il sottoscritto, o mia moglie, in un momento in cui la luce riflessa dai nostri copri riveli a lui un’immagine non familiare. Anche in questo caso, si tratta di un atteggiamento, detto “atteggiamento terrifico”, noto agli etologi, che viene esibito in natura da parte di molti animali – in primis uccelli e mammiferi – con lo scopo di intimidire il potenziale nemico, simulando un volume corporeo esagerato.
Per parlare infine di atteggiamenti che gli uccelli mostrano quando sono a riposo, oppure di comportamenti innati, spiegabili con l’organizzazione spaziale del cervello, è notevole che anche tra i pennuti esistano destri e mancini, e per accertarsene basta osservare su quale zampa, ad esempio, un uccello riposi, oppure con quale zampa il Pappagallo prenda i semi, per portarli alla bocca. Addirittura si è anche stabilito che esistono Crocieri (Genere Loxia) mancini, i quali, cioè, approcciano i coni dei pini in senso orario, anziché antiorario, come fanno invece i soggetti che sono destri (Knox, 1983). Tutto ciò dipende, come nell’uomo, dalla lateralizzazione del cervello, per cui nei destri è più sviluppato l’emisfero sinistro, mentre nei mancini è il contrario.
Apprendimento per “insight”
La forma più complessa e, potremmo dire, “nobile” di apprendimento, è il cosiddetto apprendimento per “insight”, che letteralmente significa “vedere dentro”, cioè vedere con chiarezza le relazioni tra gli elementi del problema e la sua soluzione. L’esempio più celebre di apprendimento per insight riguarda il comportamento dello scimpanzè studiato da W. Köhler (1925). Allo scimpanzè, tenuto in gabbia, viene mostrata una banana, posta ad una certa distanza dalle sbarre, irraggiungibile dal braccio proteso dell’animale. Nella gabbia, però, viene messo un bastone. Ebbene, lo scimpanzè, dapprima, cerca di raggiungere la banana allungando il braccio tra le sbarre, ma senza riuscire a raggiungere l’ambito premio, quindi si ritira in un angolo della gabbia, frustrato dall’impossibilità di ghermire la banana. In un secondo momento, vedendo il bastone, intuisce che esso può essere usato come protesi del braccio, per arrivare alla banana, per cui lo prende e lo usa in questo modo, riuscendo a impossessarsi del frutto.
Questa capacità di capire come usare gli elementi di una certa situazione, per risolvere dei problemi, è presente in modo spiccato anche nella famiglia dei Corvidi, come ho avuto modo di accertare con una Gazza da me allevata in cattività, che ho sottoposto a determinati test.
In uno di questi test, la Gazza veniva posta davanti ad alcuni bicchierini da liquore, in vetro, contenenti ciascuno un diverso tipo di cibo, e coperti con cartoncini. La Gazza, inizialmente, beccava contro il vetro trasparente, credendo di poter arrivare direttamente al cibo, ben visibile, per poi, dopo alcuni istanti, capire che doveva semplicemente rimuovere il coperchio di cartoncino, che veniva puntualmente e delicatamente afferrato con il becco, e rimosso, per poi poter raccogliere il cibo contenuto all’interno del bicchierino (Fig. 4).
Fig. 4. La Gazza (Pica pica) che per “insight” arriva al cibo. Nella foto in alto l’uccello rimuove il coperchio, mentre in quella in basso si nutre del contenuto del bicchiere
Per risolvere questo problema, la Gazza non doveva usare alcun utensile. Esistono invece casi ben noti di Corvidi che si sono mostrati addirittura capaci di costruire veri e propri utensili per poter arrivare al cibo. Si tratta delle Cornacchie della Nuova Caledonia, che sono in grado di forgiare una grande varietà di utensili uncinati, per prima cosa selezionando il materiale grezzo, quindi tagliandolo, e infine scolpendolo fino a formare un uncino (Hunt, 1996). In laboratorio, una femmina di Cornacchia della Nuova Caledonia, di nome Betty, fu in grado di costruirsi un uncino, a partire da un filo metallico, per prendere il cibo dall’interno di un tubo (Weir et al., 2002).
Le capacità fondamentali richieste per costruire utensili – standardizzazione, fabbricazione di strumenti dotati di una determinata funzione, costruzione di uncini – sono sconosciute ad altri organismi che non siano umani. I sofisticati comportamenti dei Corvidi suggeriscono livelli di cognizione complessa e di intelligenza che rivaleggiano con quelli delle grandi scimmie (Emery e Clayton, 2004).
In definitiva, sono quattro gli elementi basilari da cui dipendono le più elevate abilità di apprendimento degli uccelli: ragionamento causale, flessibilità, immaginazione, e guardare in prospettiva. Questi quattro elementi sono presenti negli uccelli – se non in tutti, certamente nei gruppi ai quali si è fatto riferimento – grazie alla presenza di un cervello eccezionalmente sviluppato. Forse è anche questo il motivo per cui, nelle nostre città, sempre più frequenti risultano gli avvistamenti delle Gazze, animali opportunisti in fatto di alimentazione, e decisamente abili, da un punto di vista cognitivo, nell’usare gli elementi che l’ambiente mette a disposizione, per trovare nuove possibilità di sopravvivenza, in un mondo continuamente mutato dalla mano dell’uomo, che sempre di più si pone, consapevolmente ed inconsapevolmente, come agente selettivo.
Note
1) In anatomia comparata, i caratteri omologhi sono quelli che, pur svolgendo funzioni diverse, hanno una comune origine evolutiva, ad esempio arti anteriori dei cavalli e ali degli uccelli, mentre i caratteri analoghi, sono quelli che svolgono la stessa funzione, ma hanno diversa origine evolutiva, come le ali dei pipistrelli, e quelle degli insetti.
2) L’encefalizzazione, ossia la progressiva crescita dell’importanza relativa del cervello, rispetto ad altri organi, non si deve confondere con la cefalizzazione, che è invece quella evidente tendenza evolutiva, riconosciuta già a partire dai Metazoi primitivi, per cui gli organi di senso tendono a concentrarsi nella parte anteriore del corpo, dove si situa la “testa” dell’animale. Va da sé che questa tendenza è rilevabile negli animali a simmetria bilaterale. Il quoziente di encefalizzazione, secondo la formula proposta da Jerison (1973), è dato dal seguente rapporto: E/0,12P2/3, dove E è il peso del cervello e P quello del corpo. Per inciso, tra gli animali che presentano i più alti valori del quoziente di encefalizzazione, abbiamo i Cetacei, e tra questi il Capodoglio (Physeter macrocephalus, Linnaeus, 1758) possiede il cervello più grande in assoluto. I quozienti di encefalizzazione dei cervelli di due femmine di Capodoglio spiaggiatesi nel settembre 2014 nei pressi di Vasto (CH), rispettivamente uguali a 1,31 e 2,02, sono risultati tra i più alti mai registrati (Povinelli et al., 2014)
3) La trasmissione dell’impulso nervoso, attraverso la sinapsi, cioè la finestra che separa la membrana presinaptica da quella postsinaptica, è mediata da messaggeri chimici, chiamati neurotrasmettitori; si tratta di molecole che vengono rilasciate da apposite vescicole all’interno della spazio sinaptico, e che si legano a determinati recettori, collocati sulla membrana postsinaptica, inducendo in essa cambiamenti di permeabilità dei canali ionici, che determinano la trasmissione dell’impulso – per via elettrica – lungo la membrana assonica del neurone postsinaptico. Il rilascio dei neurotrasmettitori richiede l’ingresso nel citoplasma di ioni calcio, fenomeno potenziato da una molecola, l’AMPc.
4) I Pappagalli sono tra le specie che rischiano maggiormente l’estinzione, a causa di problemi vari, quali il disboscamento – che causa la perdita del loro habitat – e le catture illegali. In particolare, sono state le catture a causare, soprattutto per alcune specie, drastiche riduzioni delle popolazioni naturali. Per porre un freno a tutto ciò, nel 1973, nella capitale degli Stati Uniti d’America, è stato redatto un documento, chiamato Convenzione di Washington (CITES, acronimo di “Convention of International Trade with Endangered Species), contenente una severa disciplina del commercio delle specie selvatiche, il quale documento prevede, per alcune di esse, quelle a maggiore rischio, il divieto assoluto di prelievo in natura, mentre si restringe il commercio, seguendo speciali regole di tracciabilità dei soggetti, ai soli individui nati in cattività, in allevamenti autorizzati, o comunque dotati di particolari attestati che ne certificano la cattura legale. L’Italia ha firmato la Convenzione nel 1980. Quasi tutte le specie di Pappagalli viventi in natura rientrano nelle categorie previste dalla Convenzione, che ne limita severamente la cattura e il commercio.
GRAZIE A Roberto Guglielmi
Naturalista, Ornitologo, Dottore di Ricerca in Biologia Evoluzionistica
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I didn’t know that.